Dura requisitoria dei vescovi sulle decisioni di Bruxelles.
A forza di voler includere si finisce per escludere. È l’effetto paradossale di quella che sta diventando una vera ossessione delle istituzioni europee per l’uso di un linguaggio che non faccia sentire nessuno discriminato. Intenzioni ottime, risultati discutibili. Si consiglia infatti l’uso per i documenti ufficiali di un frasario apparentemente neutro, ma si finisce col tagliare fuori chi si identifica in valori e parole giudicati “escludenti”.
Dovevano restare un documento a uso interno – infatti non se ne rinviene traccia nei siti istituzionali –, ma le «Linee guida della Commissione europea per la comunicazione inclusiva – #UnionOfEquality» oggi sono circolate in rete mostrando molte cose ottime – l’impegno per non ghettizzare i disabili, ad esempio – accanto ad altre che mostrano dove porta lo strenuo impegno per eliminare le identità producendo così nuove discriminazioni. Il caso più eclatante spunta nel capitolo «Culture, stili di vita o credenze» dove per sventare ogni «intolleranza» si invita a «evitare di dare per scontato che tutti sono cristiani» visto che «non tutti celebrano le festività cristiane, e non tutti i cristiani le celebrano nelle stesse date». Dunque, per «essere sensibili al fatto che la gente ha tradizioni e calendari religiosi differenti», è bene «evitare» di usare frasi come «il Natale può essere stressante» (chissà poi perché questo esempio) e preferirgli «le vacanze possono essere stressanti». Che agli auguri natalizi il mondo anglosassone affianchi i «season’s greetings» (alla lettera, «auguri di stagione») non è una novità. Lo è la disposizione che negli atti ufficiali dell’Europa unita la parola «Natale» sia considerata sconveniente. «Quando comunichiamo – spiega il documento – possiamo inconsciamente finire per ricadere nell’uso di forme note di linguaggio che ritraggono chiunque si discosti da uno standard privilegiato come fosse in svantaggio o qualcosa di “altro”». Intento condivisibile in linea di principio ma che finisce per produrre – nello stesso specchietto di parole da usare e da scansare – la curiosa indicazione di «non usare negli esempi e nelle storie solo nomi che sono tipici di una religione»: e dunque via «Maria e Giovanni», meglio «Malika e Julio». Che male ci sarà a usare nomi popolari non è dato sapere, così come sfugge perché si debba rimuovere il termine «colonizzazione» – che indica un fenomeno ben preciso – perché farebbe parte dei «termini» dotati di «connotazioni negative».
L’occhio cade anche sull’indicazione di «non usare miss o mrs» (signorina o signora) da sostituire universalmente» col generico «Ms», tanto anonimo quanto intraducibile. E accanto al giusto impegno per «non organizzare convegni con un solo genere rappresentato» ecco il suggerimento, quando «si chiede il genere», di «non offrire solo le opzioni maschile-femminile» aggiungendo «altro» e «preferisce non dirlo». Di qui a indicare di «non riferirsi mai al pubblico con “signore e signori”» usando espressioni come «cari colleghi» il passo è breve. Addio dunque nelle comunicazioni interne alla Commissione a «ladies and gentleman», e anche ad «anziani» preferendo «persone anziane». Ma tra le parole che a parere del governo europeo sarebbero ormai portatrici di uno stigma negativo c’è anche «omosessuale» perché «può essere considerata offensiva» visto che segue il modello medico ed è talvolta usata dagli attivisti anti-gay»: meglio «persona gay». La commissaria europea all’Eguaglianza Helena Dalli, che firma le Linee guida, parla nell’introduzione di una «Unione di eguaglianza» perché dobbiamo sentirci «uniti nella diversità». Ma di fronte al divampare delle polemiche la Commissione ha dovuto precisare che «non vietiamo o scoraggiamo l’uso della parola “Natale”» perché «celebrare il Natale e usare nomi e simboli cristiani sono parte della ricca eredità europea», ma «come Commissione siamo neutrali sulle questioni delle religioni». L’ammissione che è stato un errore. Da evitare.
(Avvenire)
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