GINOSA “La speranza è il tempo che cammina”. Mi par di leggere, in questo verso, che dà il titolo all’ultima raccolta editata delle sue liriche, una sorta di testamento poetico e spirituale di quella piccola grande poetessa sconosciuta che è stata e che continua ad essere Giosi Lippolis. Forse proprio lei, donna discriminata due volte, in quanto vittima ribelle di una società maschilista, per non dire macista, e in quanto protestante, ha identificato come nessuno il cuore ferito di Ginosa, che si dibatte tra le conche della Gravina e le terre buone degli Ulivi e si macera in questo salto di prospettiva, che nessuno di noi ha mai definitivamente compiuto. Lo testimonia in maniera struggente, proprio una sua lirica, “Ginestra”, dove si condensa tutto Il suo intimo combattimento, tra un allontanamento straniante e un vivere asfittico e soffocante, lungo le strade amate, ma strette e anguste del paese dove era nata: Ginosa, appunto.
Ieri,, se fosse ancora vissuta,, Giosi Lippolis avrebbe compiuto 98 anni. Si, Giosi era nata qui, a Ginosa, il 12 gennaio 1923. Aveva vissuto il mondo contadino e aveva assistito al rinascere di un nuovo spirito evangelico. Emigrò presto negli Stati Uniti dove venne in contatto con i maggiori esponenti della cultura nordamericana, vivendo in quella culla della Libertà, che è sempre stata Filadelfia impegnandosi attivamente all’istituto italiano di cultura di New York, dove conobbe il poeta Dylan Thomas, ma anche Joan Baez e Bob Dylan, che proprio in omaggio a Dylan Thomas prese il nome che lo avrebbe reso famoso. Fu corrispondente per l’Italia da New York per il settimanale il Mondo di Mario Pannunzio, Il Mattino di Napoli, l’Osservatore politico e letterario.Il successo in Italia di Giosi Lippolis, Fu caratterizzato dalla sua lunga e profonda amicizia con Giuseppe Prezzolini che ne divenne quasi il mentore. A lui si deve Infatti la prima prefazione alla sua raccolta di liriche. Prezzolini non era certo un critico benevolo, a riprova del vero e proprio talento, che Giosi Lippolis espresse nella sua poetica piana e gorgogliante, di dolce, tacita e mai sopita irruenza, che si dipana lungo il fiume carsico della sua esistenza, senza mai rinunciare all’intima speranza, di poter risalire il monte e la collina e di poter rivedere il sole.
Questa tematica di distacco, fuga e riabbraccio con la sua terra e con le sue radici, fa da sfondo anche ai suoi molti romanzi, alcuni dei quali forse anche inediti, la cui riscoperta si deve alla fondazione archivio che a Roma porta il suo nome e cerca di salvare e di salvaguardare la sua grande pregevole produzione letteraria.Non ho conosciuto Giosi Lippolis, questo non solo per questioni generazionali e anagrafiche, ma forse anche per un oblio distratto e irridente, a tratti venato di vergogna, che Ginosa, forse per un inconscio senso di inferiorità, le ha da sempre riservato.
Probabilmente non è un caso che Giosi sia morta a Roma, sua città italiana d’adozione, nel 2006, tra laceranti lontananze e vicinanze coatte, incubate e nondimeno accarezzate nel silenzio profondo del cuore.
Ho cercato tuttavia di immaginarla, di scolpirla nella mente attraverso i suoi scritti e ho capito, ancora una volta, dove stia la differenza tra uno scrittore e uno scrivente.
Il vero scrittore, come era Giosi Lippolis, coglie lo spirito del tempo, che è la speranza che cammina e non si arrende agli eventi.
Da quel mondo che è stata, e che tuttora è, Giosi Lippolis continua a lanciare il suo pane sull’acqua come recita un’altra sua bellissima lirica, che sembra riannodare i legami rescissi con la sua galassia di provenienza protestante, in quel gusto quasi religioso del recupero della Parola, di cui il pane è intrinsecamente ed estrinsecamente il simbolo. Che trionfa ora e sempre sulla morte del mondo.
Grazie Giosi.
Michele Pacciana
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