La più grande paura di Mohammed, 9 anni, è che qualcuno entri di notte nella tenda dove dorme con il padre, la madre e i due fratelli più piccoli. Fuori dal telone bianco che da ottobre è casa loro, ci sono altre 7.300 persone accampate in 700 tende uguali. Suo padre Ahmad A. condivide lo stesso timore, resta sempre all’erta per evitare che «ladri alla ricerca di telefoni e di soldi entrino all’interno». La famiglia è afghana, della provincia di Herat, e ora vive nel nuovo campo per rifugiati che sull’isola greca di Lesbo ha sostituito la vecchia e sovraffollata tendopoli di Moria, bruciata a settembre. Il nuovo accampamento, chiamato Kara Tepe o Mavrovouni, è conosciuto anche come Moria 2, perché le condizioni di vita pessime che Moria riservava a chi aveva la sfortuna di finirci dentro sono le stesse che si ritrovano anche qui. Servizi carenti (271 bagni chimici, uno ogni 27 residenti, secondo l’Unhcr), freddo e fiumi di fango alle prime gocce di pioggia, tende divelte dal vento, che nel nuovo campo soffia con più forza, visto che il mare è a pochi metri dagli alloggi.
7.300
I profughi accampati nelle 700 tende del campo di Kara Tepe, costruito dopo l’incendio di Moria
2.500
I bambini presenti sull’isola. La maggior parte di loro ha meno di 12 anni. Molti
a Lesbo sono nati
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I bagni a disposizione per le persone che si trovano nel campo di Kara Tepe. Che, quando piove, si allaga
Per sollecitare le autorità europee a portare via da quest’isola, una volta per tutte, i bambini come Mohammed e le loro famiglie, questa settimana Avvenire ha pubblicato la lettera aperta di un gruppo di cittadini e personalità del mondo della cultura e dell’educazione che avevano fatto appello al presidente del Parlamento Ue David Sassoli. La risposta del leader dell’Europarlamento è arrivata: vi si ammette un «deficit insopportabile di sovranità europea che costituisce un danno umanitario» e una «mancanza di poteri dell’Unione Europea in materia di immigrazione e di asilo» di fronte all’«egoismo dei Governi nazionali, sempre più riluttanti (…) a trasferire quote di sovranità». Il problema non è, tra l’altro, circoscritto solo a Lesbo. Circa 18.500 richiedenti asilo risiedono nelle isole dell’Egeo, di cui bambini e ragazzi rappresentano il 27% e tra loro quasi 7 su 10 hanno meno di 12 anni.
Mentre l’Europa cerca di trovare una soluzione che sembra tardare (orami da cinque anni), Ahmad A. pensa a crescere i suoi tre figli e tenerli d’occhio il più possibile: «Ho paura che vadano in bagno da soli, le toilette sono lontane dalla tenda, li accompagno sempre io» ci dice al telefono e il pensiero va alle indagini della polizia sul caso di violenza sessuale subita da una bambina trovata priva di sensi nei bagni una sera di dicembre. A preoccupare maggiormente Morteza H., anche lui afghano, è invece la salute di suo figlio Martin che ha 4 mesi, ha tosse e mal di gola, «ma il medico che lo ha visitato e visto paffuto ha detto che va tutto bene. Eppure tossisce parecchio». Intanto, le temperature di notte in questo periodo arrivano a 4 o 5 gradi e per questa settimana sono previsti cinque giorni consecutivi di precipitazioni. Avevamo parlato con questo neo-papà lo scorso ottobre, alla nascita di Martin, suo primo figlio. Pochi giorni dopo il parto in ospedale, mamma e neonato erano stati rimandati in tenda. «Da allora le uniche novità sono state l’arrivo delle docce (a lungo del tutto assenti, costringendo le persone a lavarsi in mare) e i pallet che ora sono posizionati sotto le tende. Ma quando piove forte, l’acqua raggiunge lo stesso l’interno degli alloggi» racconta. «Per il vento forte la mia tenda, come altre, è stata sradicata. L’ho rimessa in piedi. Quando arriva la pioggia, il terreno è troppo molle e non adatto, non drena, dunque non va bene per piantarci i teloni. Il vento li solleva». Vite nel fango, che l’Europa non vede.
Non era semplice nemmeno con temperature buone, ma ora che è arrivato l’inverno tenere un neonato in una tenda è un tormento: «Fa freddo, quindi mia moglie e io ci chiediamo di continuo se Martin sia caldo abbastanza, se si stia ammalando, se riceva latte a sufficienza. Viene allattato al seno, mia moglie sta bene, ma quando noi adulti non abbiamo abbastanza cibo, lei ha un po’ meno latte». Altro problema sono i vestiti, perché un bambino così piccolo «cresce di continuo e ha bisogno di abbigliamento sempre diverso» aggiunge Morteza, che riceve abiti usati da Ong come Refugee4Refugees e Team Humanity.
Non lontano dal nuovo accampamento di Kara Tepe, proprio accanto al parcheggio del supermercato Lidl, c’è quello “vecchio”, un campo più piccolo gestito dalla municipalità di Mitilene, capoluogo dell’isola. È stato creato anni fa per i casi più fragili. Non ci sono tende, ma piccoli box prefabbricati. Lì vive con la sua famiglia Youssef al-H., siriano di Aleppo. All’esterno, con pallet coperti da un telo blu, ha allestito una specie di divano, davanti al fuoco. Ci mette la pentola su cui cucina nuovamente il cibo del campo, per aggiungere sapore e «renderlo commestibile».
Fanno così tutte le famiglie. Grazie a MSF Youssef al-H. è riuscito ad avere un posto qui: ha un cancro, che cura con infusioni settimanali, e un problema cardiaco genetico ereditario, lo stesso riscontrato anche in sua figlia Lara di 13 anni. Con loro, oltre alla madre, ci sono anche i gemelli Muhammad e Abdo di 14 anni e la piccola Sarah, un mese e mezzo di vita. «Durante la guerra sono stato ferito, e Muhammad, uno dei gemelli, mi ha visto sanguinare. Da allora, ancora oggi, di notte si sveglia terrorizzato» racconta. Da quando ha messo piede a Lesbo dice di tentare di prendere un appuntamento in ospedale per far visitare Lara, che per i suoi problemi cardiaci in Siria era stata sottoposta a un intervento. «Non ci sono ancora riuscito» dice, e continua il suo racconto. «Nel campo non ci sentiamo sicuri, c’è gente violenta. Il prefabbricato è piccolo, ci stanno solo i 5 letti. I bambini vanno a scuola, ma non capisco, pare che qui sia sempre vacanza e le lezioni saltano». Youssef al-H. ha avuto il primo rigetto della richiesta di asilo e da sei mesi la famiglia è senza aiuto economico. «Non so perché abbiano rigettato la domanda, mi hanno detto che la Turchia è un paese sicuro ma non è così». Ci ha vissuto per 7 anni e mezzo, ma un giorno, mentre faceva la spesa, è stato fermato, arrestato e deportato in Siria. «Sono rientrato in Turchia con 1.500 dollari in tasca, ho raggiunto la mia famiglia, e ho deciso di portarli tutti in Grecia». Da allora è passato un anno e mezzo e la loro vita si è fermata dentro un campo, in un box prefabbricato, su quest’isola. (Avvenire)
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