MARINA DI GINOSA – Inauguriamo oggi, 2 ottobre 2020, una nuova rubrica di personaggi ginosini e marinesi alcuni dei quali rivenienti dal mio archivio personale. Mi sembrava giusto cominciare con il dottor Luigi Strada, che così tanto ha contato per la comunità marinese
Il lungomare di Marina di Ginosa, che corre avanti alle ombre di un mare ancora agitato, è intitolato a Luigi Strada, prima eminente medico nelle colonie del Congo Belga, oggi Repubblica Democratica del Congo, poi medico di Corte a Bruxelles, e infine, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, medico condotto nella borgata di Marina di Ginosa.
Ma che persona era, realmente e intimamente, il dottor Luigi Strada?
Riprendo, per gentile concessione della Bcc un mio articolo apparso sulla rivista della Banca di Credito Cooperativo che ho il piacere di dirigere, perché anche sul web resti traccia di un uomo schivo con un forte senso del dovere è una fedeltà innata nella cultura, nella conoscenza e nel giuramento di Ippocrate. Nell’affettuoso ricordo, ne abbiamo chiesto un ritratto al nipote, Ferdinando Strada, socio fondatore e per anni vicepresidente della Banca di Credito Cooperativo. Per lui, “Zio Gigi, come continua a chiamarlo, era molto più che un padre. Il suo, lo aveva perso a dieci anni.
«Zio Gigi sentiva profondamente i legami familiari racconta Ferdinando Strada, aveva la capacità di far avvertire intero il suo affetto, pur senza mai lasciarsi andare a melense dimostrazioni esteriori. Anche in tarda età, nelle rarissime occasioni in cui evocava ricordi della sua vita in famiglia, traspariva sempre dalle sue parche parole un affetto profondo per suo padre, di cui stimava molto la rettitudine morale e la profonda e vasta cultura, ed un sentimento di amorevole tenerezza verso sua madre, di cui ricordava la grande capacità di trasferire negli altri la propria serena dolcezza.
Negli anni del mio liceo, veniva a trovarmi più o meno mensilmente a Matera: parlava con i miei professori, e anche quando il voto della versione di greco era stato ben lontano dalla sufficienza non aveva mai parole di rammarico o di rimprovero, ma sempre di incoraggiamento, di esortazione.
Continuamente aperto al nuovo, al contrario di quel che spesso succede agli anziani, era interessato, incuriosito e stimolato dal progresso, dalle conquiste tecnologiche, e – per quanto gli era possibile – cercava di adeguarvisi: la vecchia regola del “così faceva mio padre”, nella quale molti si adagiano, non era sua. Anche in tarda età la sua mente era sempre proiettata verso il futuro, verso i giovani, sicuro della loro capacità di “raddrizzare le storture del mondo”, come diceva.
Il suo carattere solare, sereno, lo faceva franco, leale, aperto, di un’ingenuità che lo rendeva talvolta incapace di immaginare in altri l’inganno. Mai ombroso, sempre pervaso di ottimismo, di fiducia nel domani. Fin da giovane coltivò una naturale predisposizione al ‘servire’, a rendersi utile prodigandosi, come più e meglio sapeva e poteva, per lo sviluppo sociale delle comunità nelle quali ebbe modo di vivere, eppure – quel che più conta – senza mai sentirsi indispensabile.
Era modesto. Non amava mettersi in evidenza, difficilmente usava espressioni come “io ho fatto”, “io ho detto”: quando la cosa fatta o detta era ben riuscita, preferiva dire “è stato detto” “è stato fatto”. Allo stesso modo, evitava di parlare dei successi conseguiti nei vari campi in cui si era adoperato, e ancor meno dei numerosi riconoscimenti ricevuti per meriti professionali e non. A puro titolo di esempio, posso dire che solo da un suo collega belga, e con molti anni di ritardo, ho avuto notizia di un articolo comparso su una rivista medica in cui si descriveva la disarticolazione del ginocchio di un portatore che zio Gigi aveva operato con mezzi di fortuna in piena foresta e sempre altri mi hanno raccontato che svolgendo la sua opera di Capitano Medico delle truppe coloniali belghe, per aver organizzato in brevissimo tempo e con idee originali un efficiente ospedale da campo a ridosso della linea di fuoco, ebbe dal generale comandante un encomio solenne e la promozione sul campo a Maggiore.
Grande estimatore dell’intelligenza delle popolazioni indigene, ritenute, all’epoca, intellettualmente inferiori nei più retrivi ambienti culturali europei, fondò ad Elisabethville la prima Scuola per Infermieri Neri, con risultati così positivi da ricevere i personali apprezzamenti del Re Leopoldo, insieme alla sollecitazione ad istituirne altre in tutto il Congo Belga.
La sua lunga permanenza all’estero non attutiva l’amore per l’Italia, tanto che non credo esagerato dire che il ventennio di dittatura fu per lui una quotidiana sofferenza; né quella lontananza diminuiva l’attaccamento al paese nativo al quale, anche da lontano, rivolgeva un pensiero costante.
Assecondando il desiderio di suo padre, fondò a Ginosa una biblioteca pubblica, intitolata – non poteva essere altrimenti, visto che entrambi erano convintamente repubblicani – a Giuseppe Mazzini.
Fu sua l’iniziativa di istituire, con l’aiuto di altri volenterosi, il comitato per erigere a Ginosa un monumento ai Caduti della Grande Guerra: il monumento fu installato al centro della villa comunale, da dove fu rimosso qualche decennio fa e, in anni più recenti, lodevolmente ricollocato nel largo antistante il cimitero.
Non era ricco perché l’esercizio della professione medica ai suoi tempi non era remunerativo quanto oggi; ciò nonostante cercava di aiutare i pazienti che non godevano dell’allora carente assistenza pubblica, ai quali spesso lasciava medicinali, dicendoli campioni gratuiti, ma che invece aveva acquistato anonimamente in farmacie di Taranto.
Ancora pochissimo tempo fa, a distanza di circa quarant’anni dalla sua morte, un anziano “marinese”, avvicinandosi a mia moglie ed a me volle ricordare, con commossa gratitudine, quella volta che il Dottore, dopo aver visitato uno dei suoi numerosi figli, aveva trovato il modo di la sciare sul tavolo, con assoluta discrezione, un biglietto da diecimila lire (valuta primi anni cinquanta!) che furono risolutive per quel signore in quel momento di difficoltà familiare.
Si spese molto, andando più volte a Roma per sollecitare l’intervento di un suo amico parlamentare al fine di ottenere che una famiglia di operai, tutt’altro che benestanti, potesse godere i benefici della legge Aldisio che, di difficile e complicata applicazione, prevedeva congrui aiuti statali per costruire la propria casa. Sono sicuro che quella casa, tuttora esistente in viale Virgilio, ingrandita ed abbellita dai discendenti, sia la sola costruita in Puglia – se non nel Mezzogiorno – con i benefici di quella legge.
Nel dicembre 1959 seguì, come tutta l’Italia, la notizia, alla quale i media dettero molto spazio, del ricovero d’urgenza di Fausto Coppi al cui capezzale furono pronti ad intervenire primari e docenti da più parti. Sommando la descrizione dei sintomi che si andavano sempre più rapidamente aggravando. al racconto del viaggio in Africa che il campione aveva effettuato poco prima, da esperto malariologo, gli fu facile pensare ad una malaria terzana maligna. Fu tentato di inviare un telegramma ma la sua naturale ritrosia lo trattenne salvo a rammaricarsene quando poi, dopo la morte del grande campione, in un esame di laboratorio, purtroppo postumo, si trovò il plasmodium falciparum, che certificava l’esattezza della sua diagnosi fatta a distanza ed alla quale gli illustri clinici non avevano pensato ritenendola forse “banale” rispetto alla loro levatura scientifica.
Soffriva intensamente per i problemi e le necessità della comunità “marinese” che faceva suoi. Lo rattristava la continua constatazione della lontananza “culturale”, ora per fortuna un po’ attenuata, degli amministratori comunali dalla realtà della sempre crescente Frazione, che era considerata poco più che una lontana e improduttiva masseria. In particolare il suo grande cruccio è stato per decenni la mancanza di un Piano Regolatore che disciplinasse il caotico modo di costruire in quella che egli vedeva, in prospettiva, come una sorta di città-giardino.
Nel 1962, rendendosi conto della necessità di disporre di uno sportello bancario, ormai indispensabile anche in un piccolo centro in espansione, dopo reiterati quanto inutili tentativi in varie direzioni, si rivolse al Presidente dell’Istituto delle Casse di Risparmio di Puglia e Lucania, il quale non poté aderire alla sua richiesta, ma gli suggerì di pensare alla formula del credito cooperativo, già diffuso nel Nord Italia. Fu il primo germe che cinque anni dopo avrebbe portato, attraverso lunghi e faticosi percorsi, alla nascita della locale Cassa Rurale ed Artigiana, che ha poi molto contribuito allo sviluppo, non solo economico, della Borgata rivierasca.
Amava l’allora piccolo borgo marino al punto che con un lascito testamentario dispose che una proprietà terriera alla quale era molto affezionato – sia per averla ricevuta da suo padre, al cui ricordo era molto legato, sia per avervi profuso energie e capitali per renderla bella e produttiva – andasse all’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, con l’obbligo di venderla per costruire un ospedale pediatrico a Marina di Ginosa. Ma l’ONMI fu in quegli anni sciolto perché dichiarato Ente “inutile” e le sue competenze passarono alla Provincia, la cui trasandata burocrazia ha fatto sì che l’accettazione dell’eredità trovasse compimento solo negli anni novanta del secolo appena trascorso, dopo più di tre decenni dall’apertura del testamento, e solo per l’insistente spinta di amici e parenti, succedutisi negli anni come consiglieri provinciali. E – duole doverlo rilevare – a tutt’oggi ancora nulla è stato fatto.
Non era credente,. ma era volterrianamente rispettoso delle idee altrui, tanto che quel suo ateismo non gli impediva di avere amici della levatura di Padre Damiano Tuseo o di S E Mons Marcello Mimmi, allora Arcivescovo di Bari con il quale mantenne rapporti epistolari anche quando, nominato Arcivescovo di Napoli, fu elevato all’Eminenza Cardinalizia. Né quella sua convinzione gli impediva di fare generose elargizioni come il portale della parrocchia di san Martino a Ginosa, costruito a sue spese con legno congolese, o una delle campane (credo ora rimossa) della parrocchia Maria Immacolata di Marina di Ginosa.
Coerente fino alla fine, volle, ed ebbe, funerali civili.
Avrebbe voluto anche che il suo funerale fosse il più semplice e modesto possibile, ma non riuscii ad ottenerlo perché il corteo che si snodò dalla sua abitazione fino all’uscita dal paese fu più che imponente non solo per la presenza dei “marinesi” che si comportarono come se fosse stato indetto il lutto cittadino, ma anche per numerosi “cuscini” e “corone”, inviati da amici e associazioni e per la presenza di numerose personalità venute dai paesi e città vicini. Mancò, mi fu fatto notare, la partecipazione “ufficiale” della sua “Pro Loco”, che aveva fondato e guidato a lungo come presidente. Non me ne crucciai più di tanto perché pensai che egli avrebbe detto con un sorriso “così va il mondo !”
Altrettanto imponente fu il corteo che si svolse all’arrivo del feretro a Ginosa dove autorità, personalità e una gran folla di cittadini di tutti i ceti lo attendevano in via Martiri d’Ungheria e lo accompagnarono fino all’inizio di via della Pace. Mi fu garbatamente rimproverato di non aver saputo far rispettare le sue ultime volontà visto che invece di un funerale semplice e dimesso ne aveva avuto praticamente due molto imponenti per partecipazione di popolo. A nessuno sarebbe stato possibile impedire quelle due manifestazioni, del tutto spontanee, di rispetto stima e affetto che egli, con la sua vita esemplare ed operosa, si era guadagnati.
Fu sepolto, come aveva voluto, nella nuda terra; su una semplice pietra sono incisi il suo nome e le due date.
Mi commuove il constatare che è ricordato con affetto, ancora dopo più di quarant’anni dalla sua morte, a giudicare dai fiori anonimi che mia moglie ed io troviamo sulla sua tomba quando andiamo al cimitero».
Michele Paccoana
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