L’esperienza sul campo di chi è ogni giorno in prima linea nel contrasto alla pandemia
GINOSA-PESCARA, Marzo 2020 – Studentessa di infermieristica, non vedo l’ora di laurearmi, di indossare quella divisa e iniziare a lavorare, perché tutto il mondo ha bisogno di noi. Tutto il mondo è con noi; siamo finalmente ripagati di tutti i nostri sacrifici, che fino ad oggi erano sottovalutati. Tutto il mondo finalmente riconosce la nostra professione, ci ringrazia, ci supporta. Da una parte questo mi fa rabbia, perché le stesse persone che prima del Covid ci dicevano “ah sei infermiera? Quindi fai l’igiene, ma non ti fa schifo? ..ah, ma fate le punture e basta, non siete mica medici”, oggi ci chiamano ‘’eroi’’. Ma va bene, la considero una rivincita.
Aprile 2020: mi sono finalmente laureata, davanti ad un computer, lontana dalla mia famiglia, ma ugualmente grata e orgogliosa di avercela fatta. Dopo tre settimane dal grande giorno, firmo il mio primo contratto di lavoro. Non so bene se sono più felice, o più ansiosa, perché c’è scritto ‘’ Contratto Covid, Ospadale di Pescara’’. Ma si dai, sono felice. Quando mi ricapita una pandemia. E allora parto, entro in questo posto di cui non conosco assolutamente nulla. E’ la Geriatria, ormai reparto Covid da 3 mesi, dove mi affiancheranno; mi dicono di vestirmi: guanti, mascherina FFP3, cuffietta, tuta, calzari, doppio guanto, visiera, e attenzione a non toccarti. Sudo, ed è tutto appannato. Ma non importa, devi andare avanti. Non importa se quella maledetta vena con due guanti non la senti, devi incannularla, devi immaginare dove sia, e prenderla, subito: il paziente deve eseguire la sua terapia. Mi accorgo ben presto che il fantastico mondo ospedaliero che vivevo durante il tirocinio, ormai è solo un ricordo lontano. Qui i pazienti sono molto diversi; l’ossigeno terapia era una cosa che si osservava pochissimo in un reparto ordinario. Qui è indispensabile. Ventimask, cannule nasali, maschere Reservoir, NIV (ventilazione non invasiva), e se il tuo Covid si comporta proprio bene, devono intubarti. Mi hanno insegnato molto in fretta tutta l’assistenza di base per questi pazienti, ho avuto la fortuna di collaborare con colleghi molto esperti nel settore, professionisti ma soprattutto esseri umani.
Maggio 2020: è arrivato il momento di riaprire questi reparti, l’Ospedale sta soffrendo la mancanza di posti letto ormai non solo per i pazienti Covid, ma anche per tutte le aree mediche fino ad oggi chiuse per fronteggiare l’emergenza. Apre il Covid Hospital, il luogo a cui ero destinata io e tantissimi altri colleghi. Oltre 100 posti letto; tutto nuovo, ma tutto ancora da sistemare, da organizzare. Il primo giorno era completamente vuoto; il mio reparto “MIT COVID 4” ha 35 postazioni meticolosamente ordinate; mi vesto come da routine e aspetto. Dopo pochi minuti iniziano ad essere trasferiti i pazienti Covid. E’ il caos. Trasferisci a letto, monitoraggio pressione, saturazione, frequenza, temperatura; stacca la bombola, attacca l’ossigeno, esegui l’igiene, prepara la terapia; la vena non va: riprendi un accesso, riprova. Sistema la cartella, scrivi le consegne, rispondi al campanello, uno dei tanti che ininterrottamente suona. Non sento, non vedo, sudo. Voglio togliermi questa tuta. Voglio andare in bagno. Voglio bere. Ma non posso. Guardo i pazienti e vorrei avere 2 minuti per dirgli che va tutto bene, che questo trasferimento era necessario. Sono spaventati, i più anziani si disorientano. Vogliono ritornare dov’erano prima. Anche per loro è cambiato tutto. Avrei dovuto terminare il turno alle 21.00, ma sono riuscita a svestirmi solo alle 23.00. Non importa, mi sento paradossalmente felice, mi sento finalmente utile. Dopo poche settimane, siamo riusciti ad organizzare il nostro reparto. Siamo un team unito, pieno di grinta. Iniziamo a conoscere i pazienti, e siamo diventati una grande famiglia. Si, perché per la maggior parte dei degenti, questa è la loro casa da mesi. Qui non esiste nessuna visita, se non attraverso una videochiamata che, tra i tanti impegni, i nostri medici trovano il tempo di fare. E’ un momento importante, che i pazienti attendono tutto il giorno. E mi chiedo spesso se quelle lacrime dietro lo schermo siano di paura, di gioia, di mancanza. Sono tante le domande, ma spesso poche le risposte concrete. Sappiamo tanto del Covid, ma ancora troppo poco. E’ una semplice influenza per alcuni, ma per altri no. Un attimo prima sei pieno di vita, ti sembra che stia andando tutto per il verso giusto. Ma l’attimo dopo quel monitor segna 80 di saturazione. Ed è di nuovo il caos. Montiamo una NIV in pochi minuti, cercando in tutti i modi di salvare quel viso dalle lesioni da schiacciamento di quella maschera facciale sotto la quale ci sono occhi pieni di paura… “è fastidiosa lo sappiamo, ma ti aiuta a stare meglio, non preoccuparti”. Ma dentro di te lo sai che non bastano le tue parole a tranquillizzarlo. Chi non ha paura dentro una maschera che spara aria ad alta pressione e ti impedisce persino di parlare?
Luglio 2020: i contagi sono diminuiti. Riprende la vita. Esco anch’io, per staccare, per cercare di convincermi che stia ritornando ad essere tutto normale. Ma ho paura. Non tutti indossano la mascherina. Tanti iniziano a credere che sia tutto finito. La solidarietà di Marzo è bella che dimenticata. Sono tutti stanchi, stanchi di mettere la mascherina per tre ore al giorno in cui si è fuori casa. Mi guardo intorno ed è tutto sbagliato. Ma non ci arrendiamo, continuiamo a fare prevenzione, anche al bar, parlando della nostra esperienza, raccontando agli amici che abbiamo ancora pazienti molto gravi; che i contagi non sono gli stessi perché abbiamo rispettato le regole, ma non è abbastanza per fermare il Corna Virus perché lui è ovunque, e dobbiamo ancora essere in guardia, nonostante la flessibilità delle ultime restrizioni.
Agosto 2020: l’estate è finita. Molte persone non sono rientrate a casa dopo le vacanze, sono qui con noi. Abbiamo pazienti di ogni regione. Chi era di passaggio, chi è tornato a trovare la propria famiglia. In poche settimane il reparto è quasi pieno. Noi siamo pochi, loro tanti. Fa caldo, la tensione è sempre più alta. Ce lo sentivamo. Lo sapevamo. La seconda ondata sta arrivando, dobbiamo prepararci, anche se siamo stanchi e arrabbiati. Troppa leggerezza, troppe storie di persone che sono state disattente. Troppi contatti.
E tutto questo si fa sempre più intenso e pesante fino ad oggi, Novembre 2020: è tutto cambiato, siamo bersaglio di tante opinioni discutibili sul nostro lavoro, ancora una volta. Siamo assassini. Perché ‘’il Covid non esiste’’. Si, in effetti fuori di qui non esiste. Fuori di qui è tutto normale. Non esiste perché non esiste più il rispetto delle regole, non esiste perché non c’è abbastanza prevenzione, non ci sono abbastanza controlli, né abbastanza testimoni. Non esiste, perché esiste soltanto dove le persone muoiono, negli ospedali, lontano dalla quotidianità di chi non crede se non vede. Non esiste perché non hai provato il dolore di una NIV per 24 ore senza mangiare. Non esiste perché non hai sentito la mancanza d’aria nel raggiungere il bagno nonostante una bombola d’ossigeno. Non esiste perchè non hai tossito fino a vomitare. Non esiste perché tu stai bene, perché la tua famiglia sta bene. Non esiste perché tu conosci “uno che ha avuto il covid” ma che non ha avuto sintomi. Non esiste perché tu senti ancora l’odore e il sapore del tuo caffè ogni mattina.
Io mi sento fortunata. Ho assistito persone che non credevano che tutto questo fosse così reale, ma hanno fatto i conti con la vita, e hanno vinto. Ce l’hanno messa tutta, fidandosi di noi e del nostro impegno. E la vera testimonianza sono le loro parole, non quelle degli infermieri, non quelle dei medici, non il mio racconto. Ma quello di chi ce l’ha fatta, dopo settimane in Rianimazione, dopo infiniti tentativi di svezzamento dalla ventilazione meccanica e lunghe nottate in pronazione. Il racconto di famiglie intere ricoverate insieme nella stessa stanza, e la paura di vedersi morire davanti ai propri occhi.
E’ qui che il Covid esiste. Negli occhi di chi non sa come ringraziarti per tutto quello che sei riuscito a fare per lui in quelle 7 ore. Nelle lettere, nei sorrisi di chi ha lasciato il nostro reparto con quel tampone finalmente negativo, con quella TAC finalmente pulita, ma che ha lasciato in alcuni casi anche una parte di sé: un fratello, un marito, un nonno, un collega.
Sarà un Dicembre 2020 molto faticoso, in cui spero di poter augurare Buon Natale a tutti i miei pazienti. Spero che anche il vostro sia un Buon Natale, e soprattutto, mi auguro con tutto il cuore che in voi continui a non esistere nessun Covid. Vi auguro la fortuna di poter negare ancora l’esistenza tutto ciò che con un po’ di responsabilità ed una semplice mascherina, può restare lontano da voi e dalle persone che amate.
Chiara Leone
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