GINOSA – Nonostante l’ emergenza sanitaria, siamo nel pieno della campagna olearia, rito collettivo e familiare che da secoli fa parte della nostra identità. Un articolo di Ferdinando Strada ne descrive le origini e le fasi.
È autunno. Nei nostri paesi c’è una mobilitazione generale: è tempo di raccogliere le olive.
Sono tutti coinvolti, non solo quelli che abitualmente dedicano il loro lavoro ai campi. Tutte le famiglie hanno un piccolo oliveto ricevuto in eredità o acquistato non senza sacrifici: se la prima aspirazione è quella di avere una casa, immediatamente dopo, ma con pari intensità, nei nostri paesi si desidera possedere alberi di ulivo in quantità tale da assicurare la “campatə də l’uogghiə”, olio nella quantità necessaria e sufficiente per tutta la famiglia fino alla stagione successiva. Per questo i pendii delle colline sulle quali sorgono i nostri centri abitati sono – e fino a pochi anni fa, prima che i teli di plastica che coprono i vigneti coltivati a “tendone” deturpassero il paesaggio, lo erano ancor di più- ricoperti da boschi di ulivi: uno spettacolo stupendo; le grandi distese di piccole foglie, viste dall’alto sotto il sole o, ancor di più, al chiarore della luna piena appaiono come un mare d’argento dal quale si sprigiona una luce chiara e vibrante che incanta e richiama il canto di D’Annunzio che ne La Sera Fiesolana sussurra
«Dolci le mie parole ne la sera
ti siano come la pioggia che bruiva
tiepida e fuggitiva, ………….
…… sugli ulivi, sui fratelli ulivi
che fan di santità pallidi i clivi»
Uomini e donne, braccianti, artigiani, impiegati, professionisti, anche quelli dall’aspetto sussiegoso che mai si farebbero sorprendere a fare un lavoro manuale, in questo periodo, montato il portabagagli, caricate scale, sacchi, “racane” e cassette, ancor prima dell’alba invadono le vie che portano in campagna; le famiglie fanno “a rətènnə”: si aiutano a vicenda, un anno si comincia da te, l’altr’anno da me.
Non sono molte le differenze da quel che accadeva un po’ di decenni fa, e, presumibilmente, nei secoli scorsi. Sono cambiati i mezzi di trasporto: non si assiste più alla lunga teoria di traini carichi
di sacchi untuosi che si affrettavano al tramonto verso i frantoi, si fa tutto rapidamente in automobile. Le donne, non più costrette dalle lunghe e scomode gonne a svolgere solo il lavoro a terra, ora, in jeans si arrampicano agilmente al pari dei loro uomini sulle lunghe scale per “mungere” le cimette più alte; le antiche nenie dialettali cantate in coro, intercalate da allegri e maliziosi stornelli, sono state sostituite da incomprensibili canzoni americane che vengono fuori da stridule radioline; si accende ancora la ramaglia per preparare la brace, che continua ad essere un gioioso punto di sosta per una rapida colazione che non si fa più con pane casereccio abbrustolito sulla brace e olive “arrostite” lì per lì sotto la cenere, ma con alimenti industriali resi ghiotti dalla martellante propaganda televisiva.
Sono, però, tutti cambiamenti esteriori.
Nel profondo resta sempre, immutato, un ancestrale, rispettoso, spesso inconsapevole amore verso quell’albero dal tronco nodoso, contorto, scavato in cui sembrano incisi i remoti millenni di storia e sofferenza umana e che pare custodire nelle sue profonde rughe un indelebile segno di saggezza.
Perché? solo perché da quell’albero si ricava l’alimento che è stato “da sempre” uno degli elementi base del sostentamento alimentare dell’uomo ? o anche perché è l’elemento che più caratterizza le nostre colline e pianure, il paesaggio in cui ci “sentiamo a casa” ? o anche perché in quell’albero si intravvede un album vivente da sfogliare, per attingervi, ciascuno secondo le proprie sensibilità e propensioni, gli stimoli che si possono cogliere ammirando il vigore, la forza ripollonante, la sua capacità di sopravvivenza nonostante le frequenti avversità, le aggressioni degli animali e a volte anche la malevola opera distruttiva dell’uomo ? o, ancora, perché è stato, e continua ad essere, per gran parte del mondo, il simbolo della pace, della concordia fra i popoli e della fratellanza fra gli uomini ? perché è stato oggetto di tante amorevoli e faticose cure per tanti secoli ? e quando è “nato” ? e dove ?
Molti scrittori e storici si sono occupati di indagare per trovare una risposta a queste domande e tutti hanno dovuto convenire che
l’origine di questa preziosa coltivazione si perde nella notte dei tempi più remoti. Numerosi reperti archeologici dimostrano la presenza dell’olivo spontaneo già dal 6000 a.C sull’altipiano dell’Asia Anteriore, nel Pamir, nel Turkestan, in Siria, in Palestina e alcuni studiosi tedeschi, nella prima metà del XIX secolo, dimostrarono che l’ olivo coltivato da quei territori si diffuse rapidamente arrivando in età minoica (2000 aC)) a Creta e di lì ha letteralmente e beneficamente invaso le altre isole dell’Egeo, l’Egitto e la Palestina. I Fenici che non erano agricoltori né conquistatori, ma grandi navigatori e abilissimi speculatori, la diffusero rapidamente in tutte le coste del Mediterraneo, comprese le nostre, non stabilendo colonie permanenti, ma impiantando stabilimenti commerciali.
Agli Ulivi è da sempre legata non solo l’economia di molte zone dell’Italia, in particolare di quella centro-meridionale, e segnatamente della nostra Regione, ma anche una peculiarità estetica del nostro territorio.
Hanno caratterizzato il paesaggio delle ultime propaggini delle nostre murge e delle nostre gravine adattandosi alle ruvide asperità delle rocce, opponendosi con contorsioni, inusuali per alberi di altre specie, alla tenace dominanza dei venti, aderendo e abbarbicandosi alle crepe e alle fessure che il bulino del tempo, con fervida fantasia, ha scolpito nella roccia calcarea; non si può restare indifferenti di fronte alla forza evocatrice di un ulivo ripollonante accanto ad una
grotta, ad una chiesa rupestre, a un dolmen.
Probabilmente, quella dell’olio, fu una scoperta intuitiva, spontanea, quasi ovvia, avvenuta, come spesso è accaduto nella storia dell’Umanità, in regioni diverse, da popoli diversi, negli stessi periodi di tempo.
Le prime operazioni di schiacciamento erano eseguite in maniera molto semplice: si faceva rotolare una pietra cilindrica sulle olive disposte su di una pietra dritta, piatta.
Noi italici, e in particolare noi pugliesi, abitanti di una terra protesa nel mare verso altre terre, siamo stati più volte invasi da dritta e da manca spesso cruentemente e qualche volta anche beneficamente per cui abbiamo assorbito geni di popoli lontani assimilandoli nella nostra speciale individualità; con quelle persone che arrivavano, passavano, si fermavano avvenivano scambi naturali e ambivalenti non solo di cose ma anche di abiti mentali e di miti ancestrali e si comprende quanto facilmente quei sentimenti di rispetto, riconoscenza, gratitudine molto sentiti nelle religioni del mondo classico verso il grande albero ed il suo prodotto si trasferissero nelle tre grandi religioni monoteistiche i cui riti sono “intrisi di olio ed i cui sacri testi pullulano di immagini di alberi grigioverdi dai tronchi contorti” (Roberto Bosi, L’Olio –.
Nelle religioni cristiane, cattolica e ortodossa in particolare, la consacrazione degli oli riveste grande rilevanza sacramentale; per essa si celebra il giovedì santo nelle basiliche una imponente cerimonia presieduta dal vescovo diocesano. con la solenne benedizione degli oli che vengono poi conservati con grande riverenza in preziose ampolle per essere poi usati per le unzioni che scandiscono la vita del cristiano a cominciare dal battesimo con l’olio catecumenale che preserva dal peccato; alla cresima con l’olio crismale che conferma, all’ ordinazione dei sacerdoti che con l’unzione della loro fronte e delle loro mani,, secondo l’ordine di Melchisedech, vengono solennemente consacrati, ed infine, nel momento estremo, l’unzione con l’olio unzionale o degli infermi che purifica in preparazione all’incontro con Dio.
L’olio, oltre che nelle religioni, era importante anche nella medicina: Plinio (sempre lui) afferma che le ceneri ricavate bruciando foglie di olivo sono un efficace cicatrizzante in particolare per le ferite chirurgiche, che un infuso con aggiunte dell’onnipresente miele è depurativo ed astringente, che le olive verdi mangiate insieme con
acciughe sono un toccasana contro il mal di mare (un mio amico pescatore mi conferma che è un rimedio valido ancora oggi) e che uno shampoo con teneri germogli cotti e ridotti in poltiglia con l’aggiunta di miele arresterebbe (antica pia illusione) la caduta dei capelli e rinforzerebbe i rimasti. E che sia importante nella medicina è confermato ancora in tempi vicinissimi a noi grazie al lavoro di ricercatori olandesi che nel 1987 hanno scoperto e ampiamente dimostrato che il consumo di olio d’oliva fa diminuire il rischio di infarto cardiaco.
Negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo l’uso dell’olio d’oliva si estese a molti campi industriali: era richiesto nella saponeria, nella conceria, nella tintoria, nella tessitura e -una vera curiosità- come lubrificante per i treni nelle zone molto fredde: “….e di vero sono aumentate le ricerche di quest’olio a misura che le strade ferrate sonosi venute estendendo al nord de l’Europa…” (G. Caruso, Uso dell’olio presso gli antichi, UTET,1895)
L’olio, prendendo esempio dal suo padre olivo, ha sopportato con pazienza i nostri periodici abbandoni,ha perdonato le nostre capricciose diserzioni nei non brevi periodi in cui gli abbiamo preferito altri grassi, e continua, con la naturale e semplice fedeltà di un vecchio amico, ad avere un ruolo centrale nella nostra vita tanto che non ci sembra banale, anche in tempi di informatica e di fibre ottiche, un pertinente richiamo alla “civiltà del lume ad olio”. Naturalezza e semplicità messe ben in evidenza da un detto d’antan che, in un arguto paragone, ha ragione di dire: «il vino ci fa intravvedere la vita come la vorremmo, l’olio ci mostra la vita com’è: fruttata, pungente e … con un leggero retrogusto di amarezza !»
Ferdinando Strada
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