Che fine hanno fatto i nostri matti? Non li vediamo più animare una piazza ormai deserta. Al massimo ci passano davanti infreddoliti e rinserrati, chiusi in spalle d’uccello, che non sembrano più in grado di proteggerli, senza più il coraggio neanche di gridare il loro disagio.
Li conoscevamo tutti per nome, i nostri matti, ognuno con storie smozzicate e sconnesse, con una follia rabbonita e innocua, che faceva quasi parte dell’anima nascosta, ma comunque accogliente di un paese di provincia, come il nostro, come Ginosa.
A volte li sublimavamo, magari scoprendo un cuore d’artista, per neutralizzare la comune angoscia. In ogni caso erano parte di noi, i nostri matti.
Li immaginavamo tutti come possibili Ligabue o Dino Campana, ma era l’ennesima illusione per non vedere che la malattia mentale esiste e ci tallona alle spalle. In fondo anche i frizzi e lazzi dei ragazzi, erano a loro modo affettuosi, quando la rabbia non diventava un meccanismo di difesa.
I matti di paese sono sempre stati diversi dai matti di città. Il cinema me ne ha fatto un’icona, da Fellini a Tornatore, alla letteratura ebraica yiddish, che ne ritrovava, proprio come noi, la sua coscienza più remota.
Quando qualcuno se ne andava, quando qualche matto veniva rinchiuso, anche solo per un periodo, ne soffrivamo un po’ tutti.
Poi, quasi per esorcizzare il male che sentivamo dentro, ci gettavamo nella fretta e nella fatica della vita quotidiana.
Oggi la follia è più cupa, più arrabbiata. Anche prima, si chiudeva la vergogna in casa; ma il malato mentale, forse, pur in un dramma lacerante, si sentiva meno solo.
Accogliemmo la legge Basaglia, nel 1980, come una manna dal cielo, ancora una volta ci dimostravamo illuminati, la nostra coscienza, miope e buonista era finalmente acquietata. Ma il matto non era solo una carta dei tarocchi.
Il Sud se ne rese conto quasi subito. L’eliminazione dei manicomi era solo un bellissimo sogno. Mancavano le strutture,
Gli ospedali psichiatrici continuavano a dibattersi tra un bivio e un baratro. Noi non eravamo a Trieste. Dalla cultura senza catene si passò repentinamente alla subcultura del farmaco. Ad ognuno la sua pillola. La malattia è un processo chimico, o no?
I tempi sono cambiati, i sogni, purtroppo, muoiono all’alba, lasciando il posto alla depressione, subdola, nebbiosa e imperante, arriva anche a vent’anni. Si comincia con gli ansiolitici, sperando di non arrivare mai alla terapia al litio.
Non si vuole ammettere, ma per prendere coscienza, per cominciare una cura ci vuole un grande coraggio, da parte delle famiglie e dei singoli. I centri di igiene mentale fanno quello che possono.
I matti, adesso, li chiamiamo folli, psicopatici. Saltano i ponti neuronali e di dialogo al mondo. La violenza esplode in un attimo. Quando è da chi non te l’aspetti. Un paese sempre più impaurito, si chiude nel freddo e nel buio di se stesso.
Le famiglie rimangono sempre più sole, schiacciate e annichilite da un peso troppo grande.
Forse un po’, la rimpiangiamo, la nostra piccola città dei matti. Forse era solo il titolo di un film, un’icona consolatoria, In un mondo che corre troppo. Ma ci piaceva molto.
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