Secondo gli ultimi dati Istat, un alunno su tre in Italia, arriva all’Università senza saper leggere, o scrivere e comprendere appieno un testo, presentando anche gravi carenze in matematica e scienze.
Il gap, secondo le stime, si allarga notevolmente se si guarda al Mezzogiorno.
Forse è arrivato il momento di chiedersi il perché.
Certamente non è tutta colpa dei ragazzi, che non sono tutti svogliati, abulici, attaccati e dipendenti dai cellulari.
Il mondo, probabilmente, è mutato troppo velocemente, abbiamo fatto fatica a stargli dietro, ma il cambiamento va gestito, non esorcizzato. È noto che il corpo insegnante, si è notevolmente declassato, l’insegnamento è diventato troppo spesso una scelta di ripiego, a fronte di un fallimento di obiettivi ben più ambiziosi e diversi. È anche vero che gran parte dei docenti non risultano adeguatamente motivati e stimolati dal punto di vista anche economico e di risultato.
Forse manca quella che un giorno chiamavamo la spinta propulsiva. E’ anche drasticamente cambiato il background familiare dei bambini e degli adolescenti che si affacciano al mondo della scuola, con quali ambizioni e prospettive, appare tutto da comprendere e dimostrare. Questo è un altro difficile compito che spetta al corpo insegnante.
I nuovi genitori sembrano, ad un occhio distratto, degli eterni adolescenti, incapaci di imporsi senza autorità ma con autorevolezza e questo si riflette anche nel contesto classe.
Il docente molte volte è oberato tra la burocrazia e il suo ruolo di educatore che ne viene inevitabilmente depauperato e frustrato. Nonostante tutto, vi sono ancora docenti, degni di essere definiti insegnanti, cioè coloro che sono e si dimostrano ancora capaci di lasciare il segno in chi li ascolta.
Come si riflette tutto questo nel nostro paese?
Ancora una volta Ginosa diventa un microcosmo, uno specchio concavo a cui guardare per potersi orientare.
Le scuole anche qui chiudono e diventano istituti comprensivi, con dirigenti e docenti costretti spesso a barcamenarsi tra un plesso e l’altro.
Nascono sempre meno bambini. Un bimbo che nasce é una vita che si apre, non una gravosa incognita, un pesante basto da caricarsi sulle spalle, giudicate troppo strette e fragili per mantenerlo.
Allora forse la chiave è, da parte di tutti, trovare l’amore per ciò che si fa, oltre l’abitudine e il dovere, oltre lo stimolo economico che può apparire inadeguato.
Il passato non era migliore, forse si sono persi punti di riferimento e si fatica a trovarne di nuovi, sentendosi a tratti incapaci, nonostante la volontà e l’impegno a trovare i mezzi per raggiungerli.
Il giorno si dibatte quindi, anche a scuola, tra insegnanti e alunni, tra amore e paura, sta a noi scegliere, non a monte, ma in ogni istante, quale delle due strade percorrere, per diventare re, o prigionieri di noi stessi.
Se mi faccio dominare, anche inconsciamente, dalla paura, mi ripiego, cado e precipito nel vuoto.
Se mi affido all’amore, viceversa, noto che Dio, mi ha reso fortunato, capace di trasformare, una difficoltà
in possibilità ed opportunità, in un obiettivo in un progetto da realizzare, in cui l’altro non è un pericolo, ma uno specchio, in cui guardarsi, a cui dare e da cui ricevere energie per continuare a camminare e ad amare.
Ogni giorno ha qualcosa da insegnare. Allora chiediamoci: Quanto amo quello che faccio? Perché lo faccio? Quanto amore riesco a dare a chi mi sta di fronte?
Nell’amore, nessun giorno è uguale all’altro; e nulla si trasforma in abitudine.
La scuola è ancora amore per l’altro e per la conoscenza, non semplice trasmissione di astratte competenze. Impariamo a raccontare la storia di ciò che facciamo e insegniamo. Ci proviamo?
Michele Pacciano
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