Se vuoi capire che cosa significhi realmente la parola immigrazione in quel microcosmo dormiente, arrochito e incattivito che sta diventando il nostro paese, arrampicato su esili speranze tradite, basta fermarti a mezzogiorno all’angolo tra via Tagliamento e via Matteotti, vicino al distributore automatico di bevande. Lì, di fronte ai pochi pullman che partono e che arrivano tra sbuffi stanchi di fumo acre, si riuniscono gli uomini della comunità rumena, agricoltori a giornata, magari pagati a nero ma anche sfaccendati, che si attaccano all’ultima birra disperata.
Questa è la faccia più bieca di un’immigrazione che non si comprende; e che è più facile derubricare in un’invasione inesistente, senza capire che sono questi stessi uomini, magari stipati in catapecchie, affittate da ginosini, a mandare avanti la nostra agricoltura, con buona pace dei proprietari. E magari le loro mogli e sorelle fanno da badante ai nostri nonni, o parenti disabili.
C’è chi lavora onestamente e chi si arrabatta ai limiti della legalità.
Di notte qualche furgone viene bruciato e qualcuno, sottovoce, parla di racket del caporalato.
Dai furgoni fermi agli angoli dei marciapiedi, nei pomeriggi ventosi di questa primavera invernale, scendono anche marocchini, tunisini e senegalesi. Qualche donna col velo e il carrozzino della “Chicco”, si affaccia a fare la spesa al supermercato. I cinesi si vedono poco in giro, stanno chiusi nei loro negozi all’ombra delle lanterne rosse, con affitti anche esorbitanti, pagati in contanti.
Di sera la villa è vuota. E non è solo colpa del Covid.
L’immigrazione è un problema.
Ma per affrontarlo seriamente, bisogna guardarlo negli occhi, una volta per tutte.
Michele Pacciana
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