Ogni volta che arriva il 27 gennaio, sento un grande vuoto, un buco allo stomaco. Ho paura di quando morirà l’ultimo testimone della Shoah.
Perché la memoria non diventi un rito stanco, dobbiamo dargli nomi e volti. Ho conosciuto molti deportati, come Elisa Springer, tra gli ulivi di Manduria, ma oggi voglio parlarvi di Teddy Halpern, discriminato due volte, perché ebreo; perché disabile, come me.
Teddy Halpern era nato con un grave problema di deambulazione, con due moncherini al posto delle mani e una testa pelata come una palla da biliardo.
Ebreo austriaco, di una famiglia della borghesia di Vienna, dopo un’infanzia dorata, a 8 anni si scontrò con l’inferno dell’occupazione nazista dell’Austria, delle persecuzioni antiebraiche e dell’olocausto.
I suoi genitori ripararono negli Stati Uniti, ma lui era disabile e gli USA gli rifiutarono il visto di ingresso perché ritenevano che potesse essere un peso per la società americana. Fuggì quindi in Belgio con la nonna. Quando i tedeschi arrivarono anche lì, cercó di riparare in Francia, ma durante un bombardamento aereo perse la mano della nonna e si ritrovò da solo. Arrivato rocambolescamente a Parigi, fu soccorso da un’ambulanza, ritenuto un bambino disadattato venne rinchiuso in un manicomio. Grazie ai buoni uffici di un infermiere, fu poi mandato in un orfanotrofio cattolico. Qui imparò il francese, riuscì a non patire la fame e a sfuggire alle persecuzioni naziste. Quando i superiori dell’Istituto cercarono di farlo convertire al cristianesimo, non volendo soggiacere a questa imposizione, una notte del 1943, a soli 13 anni, fuggì dall’orfanotrofio con un gruppo di ragazzi e si unì ad una banda partigiana dell’esercito clandestino di Charles de Gaulle, che combatteva i tedeschi con sabotaggi nelle città.
«Che ce ne facciamo di te? – si chiesero i Partigiani – Non puoi certo impegnare un’arma, conciato così dove vuoi andare?».
Ma Teddy aveva sempre fatto della sua debolezza una forza e capì che poteva dare “diversamente” un contributo alla causa.
Chiese a un calzolaio, anch’egli nella banda partigiana, di praticare un foro nelle sue scarpe ortopediche per creare un vano segreto. Così il piccolo ebreo disabile divenne uno dei più importanti portaordini della Resistenza francese.
Nessuno badava a lui, e divenne il tramite tra i partigiani sparsi dal nord della Francia fino a Parigi, le sue missioni si susseguirono durante tutto il corso della guerra fino a quando gli americani sbarcarono in Normandia.
Alla fine delle ostilità Teddy fu ricoverato in un campo profughi ebrei ortodossi per poi poter raggiungere la sua famiglia negli Stati Uniti, ricongiungendosi con la nonna e con i genitori che erano scampati alla Shoah.
Ho incontrato personalmente Teddy, un anno prima che morisse nel 2015, non avevo mai parlato diffusamente della nostra amicizia nata attorno ad un tavolo del ristorante della Shoah Foundation The New Jersey, sboccancellando un gustosissimo panino kosher e parlando di comuni progetti futuri, che non si sono potuti realizzare perché lui se n’è andato troppo presto. Teddy era l’ultimo testimone di un olocausto dimenticato, quello dei disabili, di cui anch’io avrei potuto essere vittima.
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