La 24enne non ha riconosciuto il figlio, perciò il bambino è diventato adottabile. Lei e il compagno 29enne vengono da un piccolo centro vicino a Cagliari. «Vorrei lavorare, ma chi mi prende?»
Al nome non ha neanche pensato. «Che senso aveva? Tanto sapevo che non lo avrei tenuto. Come si fa a tenere un neonato in questa situazione?».
Il bambino nel frattempo è diventato adottabile, perché non è stato riconosciuto. Ma sembra già lontano dai suoi pensieri, costantemente occupati dalle piccole necessità in un orizzonte che si estende al massimo alla giornata in corso. È nato prematuramente il 2 dicembre, all’ospedale di Melegnano, pochi chilometri a sud di Milano. E lì è rimasto, quando lei, la madre, è tornata al suo rifugio precario alla stazione della metropolitana di San Donato, alle porte della città: tre ombrelli aperti più uno rotto, una coperta militare dal colore indefinito, un po’ di cartoni, un carrello della spesa. Lì l’aspettava il suo inseparabile compagno, perché è lì che insieme vivono da aprile, indifferenti al via vai di autobus e persone, che a loro volta sembrano indifferenti alla miseria di quel giaciglio.
Lei non ha ancora 24 anni, lui ne ha 29. Vengono entrambi da un piccolo centro vicino a Cagliari, da dove sono sostanzialmente fuggiti prima della pandemia: «Niente nomi, per favore, non vogliamo che ci riconoscano». Dai loro racconti zigzaganti nel tempo e nella logica — orfani di troppi dettagli — affiorano due giovani esistenze in equilibrio precario lungo la linea di galleggiamento, prima di scivolare nel degrado, fuori dal campo di tutti i radar sociali. Randagi e fantasmi, ma sempre insieme. «Non abbiamo documenti e quindi non possiamo fare niente», spiegano prima uno e poi l’altra. Lui rimanendo accucciato sotto gli ombrelli-tenda, lei in piedi lì davanti, in una sorta di moto perpetuo di gambe, braccia, mani annerite e testa ondeggiante, liberando qualche sorriso quando racconta i dettagli più dolorosi. «Dovremmo andare a rifare tutto nel nostro Comune di residenza — dice la ragazza in un accento inconfondibile — ma chi ce li ha i soldi per andare fino in Sardegna? Qualcuno mi dice che mi pagherebbe il biglietto, ma io non credo che una persona normale poi ci paghi anche il ritorno e in Sardegna non ci vogliamo restare, perché lì non c’è proprio niente per noi».
Eppure, ci sono ricordi di nonne e mamme, e poi anche loro hanno vissuto da «persone normali». O almeno così dicono i loro ricordi del periodo di permanenza in Germania. «Lui lavorava come pizzaiolo dentro una fabbrica della Volkswagen, e io facevo lavoretti in nero, stavamo bene». Ma poi arriva un buco nero, quantomeno nella memoria, perché il racconto conduce in un carcere tedesco. «Avevamo dei debiti — taglia corto la ragazza — però lì in prigione ti danno tutto e pure un po’ di soldi». Poi il foglio di via e l’approdo a Milano. «In centro ci mandavano sempre via, qui va bene e se fa troppo freddo andiamo a dormire giù in metropolitana, ma alle 5 del mattino ti cacciano. Ma nei dormitori non ci andiamo perché ci separano».
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