TARANTO – Il decreto-legge varato ieri sera dal Governo col fine di calmierare gli effetti della crisi ucraina, intervenendo in favore dei settori produttivi più colpiti dal caro energia, costituisce, per la Federpesca nazionale, «una misura che potrà garantire un sostegno concreto alle imprese. Il Governo ha recepito le nostre richieste prevedendo un credito d’imposta pari al 20% della spesa sostenuta per l’acquisto del carburante effettivamente utilizzato nel primo trimestre solare dell’anno 2022 e la possibilità di rinegoziare i mutui delle imprese».
A Taranto, città dove la mitilicoltura è in stato di agitazione per il rincaro del carburante e per l’aumento del canone demaniale marittimo, la notizia del decreto anti-crisi non è accolta con entusiasmo, perché come spiega alla «Gazzetta» il presidente provinciale di Mitilicoltura-Pesca Confcommercio Luciano Carriero (qui in foto), «il sistema cooperativistico della pesca jonica è frazionato, dove la gestione fiscale è appannaggio degli armatori, alla guida dei pescherecci, che in un primo step ricevono il 50 per cento del guadagno lavorato. La successiva metà del ricavo viene distribuita alle unità operaie, alle quali dunque non viene ceduto il bonus della tassa. Tale misura, inoltre, non aderisce allo standard del guadagno del settore ittico, perché il credito sul tributo da reinvestire si calcola attraverso il peso economico. Nel nostro caso con guadagni limitati la cessione del fido non è soddisfacente come storno anti-crisi. Ragion per cui, sarebbe stato più strategico individuare una misura assistenziale che arrivasse direttamente ai pescatori, come ad esempio il prezzo del carburante utile a concretizzare la propria giornata lavorativa. Ma anche in questo caso – evidenzia il rappresentante di Confcommercio – il mercato locale fa i conti con quegli aiuti di piccola entità noti come de minimis che lo Stato concede alle imprese solo se non viola le norme sulla concorrenza». Tale inciso legislativo si inquadra nel presente della pesca tarantina, «sia per la questione di non semplice concretizzazione dei venti milioni di euro attesi dal Governo e sia perché la produzione locale soffre da tempo la monopolizzazione del prodotto, attuata ai limiti del legale dalla concorrenza» sottolinea Mario Imperatrice.
Il responsabile provinciale del settore ittico per Unicoop accende il faro su una questione «paradossale» che si chiama «reimmersione» ovvero l’ultima fase dell’allevamento del mitilo atta a garantire l’autoctonicità della merce, che precede la messa in vendita e che è diventata «una pratica abusata – spiega il rappresentante di Unicoop – da parte dei produttori locali, i quali immettono nel nostro bacino pesce che proviene da acque straniere, andando così a contraffare la linea della tracciabilità. Questo fenomeno è a margini della legalità, tanto da danneggiare non solo il lavoro della mitilicoltura nostrana, che è debole di fronte al libero mercato, ma anche l’equilibrio biogenetico perché se si fa un abuso della stabulazione di un frutto che non è autoctono nel nostro mar Jonio, emergono rischi di carattere zootecnico, con effetti collaterali per gli allevamenti prospicienti del prodotto locale per via di parassiti e alghe tossiche provocate dalla reimmersione di quantità elevata di pescato che giunge da fuori confine».
L’illustrazione del fenomeno reimmersivo da parte di Confcommercio e Unicoop guarda al marchio della cozza di Taranto, come emblema di una bontà del prodotto «che purtroppo negli anni è stata messa in discussione sia dalla concorrenza sleale che da una cattiva pubblicità legata all’inquinamento» evidenzia Carriero, il quale spiega che «le zone di stabulazione che accolgono i mitili sono continuamente sottoposte a controlli da parte della Asl che certifica, periodicamente, il buono stato di salute, che costituisce l’habitat atto a garantire la qualità del prodotto. Ma spesso la bontà del nostro pescato rimane dietro le quinte di un palcoscenico-mercato al limite del legale». E’ l’ennesimo grido di allarme della mitilicoltura tarantina che, secondo i dati delle organizzazioni di categoria, nell’ultimo decennio ha visto dimezzare la propria forza lavoro, passando dalle 1200 alle 600-700 unità.
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