Era una ventosa mattina, quell’8 maggio del 1943, sulla collina di Osoppo nel Friuli. La guerra attraversava la sua fase più cruenta. Tra il vento e il cielo si respirava già aria di disfatta.
Le truppe italiane non erano ancora allo sbando. Tutto era in bilico, come per una tragedia imminente.
Il caporale Paolo Quinto si era appartato con un gruppo di commilitoni in un momento di relativa calma. Qualcuno fumava una sigaretta, Nazionali o Milit d’ordinanza.
Improvvisamente Paolo notó una spoletta. A pochi metri di distanza da loro, c’era una bomba pronta ad esplodere.
Il giovane caporale Paolo Quinto, aveva allora 25 anni, capi subito cosa fare. Tirò a sè la mina e si allontanò aspettando di lanciarla quando fosse stato lontano dal drappello di militari.
Ma non fece in tempo, mentre correva nel tentativo di salvare i compagni, la bomba gli esplose in mano tranciandogli di netto l’arto superiore destro. Gli altri erano salvi, ma lui, decorato al valor militare, fu condotto all’ospedale da campo. Aveva perso una mano, ormai era un invalido, non avrebbe potuto lavorare, forse non poteva neanche farsi una famiglia. Meglio la morte.
Tra le lenzuola sudice dei letti di canapa, meditava il suicidio.
Ma accanto a lui c’era un altro ferito. L’uomo lo guardò supplichevole senza parlare. Poi trovò il coraggio e con voce rotta gli chiese di accompagnarlo in bagno. Il suo compagno di stanza non era più in grado di gestirsi da solo neanche nelle più intime faccende quotidiane.
Paolo capì subito che non tutto era perduto, aveva ancora tutta la vita davanti e con una mano avrebbe potuto fare molto di più di quel povero sventurato. Il suo destino non era segnato, la vita non lo avrebbe messo a tappeto. Lui non si sarebbe arreso.
Quando tornò a casa, dopo la guerra, c’era un mondo da costruire. Lui era già morto e risorto una volta. Poteva e voleva ricominciare. Da ragazzo a Pisticci, in Basilicata, dove era nato, aveva fatto il pastore, ma ora poco lontano di lì, a Ginosa Marina braccianti leccesi facevano il tabacco e c’era la possibilità di lavorare, bisignava tentare.
Paolo si sposò e decise di partire alla volta di Ginosa Marina.
Cominció a lavorare come salariato nelle campagne vicino al bivio di Rossetti.
Si fece notare per la voglia di fare.
Via via che il tempo passava, Paolo maturava l’idea di aprire un forno, di mettersi in proprio e di lavorare come solo un uomo sa fare.
Gli proposero anche un posto di impiegato all’Arsenale di Taranto, Paolo era un invalido di guerra. Avrebbe avuto molti vantaggi. Ma lui non si sentiva una persona inabile, il suo cervello camminava a mille e aveva energie da vendere, non voleva vivere di assistenzialismo, voleva dare il suo contributo e fare l’imprenditore.
Confidandosi con i fratelli avvió il forno a Ginosa Marina e poi, via via che l’attività progrediva, si rese conto della possibilità di impiantare anche un mulino.
Gianni Quinto, titolare di un accorsato Market e rivendita di bombole a Ginosa Marina, si commuove ancora quando racconta di suo padre e della sua grande forza d’animo, che ha instillato nei figli l’orgoglio di essere ciò che sono.
Negli anni 50 la comunità marinese decise di dotarsi di un istituto bancario grazie allo sforzo di alcuni coraggiosi pionieri capitanati dal dottor Franco D’Alconzo che della borgata rivierasca era il medico condotto. Paolo Quinto aveva allargato il proprio raggio d’azione. Era entrato in società con l’avvocato Cellamare, gestendo il cinema La Pineta.
In quegli anni, l’Itala povera e in calzoni corti, inseguiva il sogno di celluloide con “ “Due soldi di speranza” e “I figli di nessuno” , mentre dall’America sbarcavano i miti di di TyronePower, Edward G Robinson, Veronica Lake e Jane Harlow.
Proprio lì, nei locali del cinema La Pineta, più di 50 anni fa in una fatidica mattina del 1966, si tenne finalmente l’assemblea fondativa della Cassa Rurale artigiana di Marina di Ginosa, che poi sarebbe diventata la Banca di Credito Cooperativo. Paolo Quinto c’era.
Era stato tra i primi a credere a quel sogno di banca delle persone, che avrebbe costituito negli anni il tessuto connettivo di un’intera comunità. oltre ad essere socio fondatore, Paolo fu uno dei primi correntisti del nuovo istituto di credito, aveva il conto numero 8.
La sua tenacia è stata sempre premiata. Fino alla sua morte, avvenuta tragicamente nel 1989, falciato da un automobilista mentre attraversava a piedi una strada secondaria. È stato uno dei soci più rappresentativi e operosi della nostra Bcc.
Tutti i suoi figli,Gianni e la sorella Angela, sono soci come il padre. La Banca di Credito Cooperativo di Ginosa Marina continua ad essere un punto di riferimento per chi voglia fare impresa e per chi si senta legato al territorio e alle sue risorse. La nostra è una banca delle radici, che affondano in storie esemplari di piccoli grandi uomini come Paolo Quinto, nei suoi occhi c’era tutto lo spirito di un’Italia che non si è arresa, che si è messa in gioco, che ha rischiato e ha vinto.
Questi sono gli uomini della nostra comunità. Questi sono gli uomini ai quali dovremmo guardare. Per poter realmente ricominciare.
Questi sono gli uomini ai quali dovremmo guardare. Per poter realmente ricominciare.
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