Due suicidi a Ginosa a partire dal 2021, un terzo a fine 2020. Una media sicuramente preoccupante. Perché qualcuno si tolga la vita è sempre un mistero, un buco nero che ci lascia un vuoto lacerante che non riusciamo a spiegarci. Abbiamo chiesto una analisi al dottor Sandro Catucci, psichiatra di origini ginosine.
Dottore, come spiega l’incidenza dei suicidi nel nostro territorio?
Bisognerebbe partire dal raffronto dei dati, che sono di per sé difficili da reperire come elemento disaggregato su base territoriale. – Dichiara il Dr. Catucci – Stavo guardando su internet dei dati dell’istituto superiore di sanità che sono interessanti rispetto ai morti per suicidio in Italia, che sono circa 4,7 per centomila abitanti; 7,6 per gli uomini, 1,9 per le donne. Sarebbe interessante vedere che percentuale che c’è su Ginosa rispetto ai suoi 20000 abitanti. Tra l’altro l’Italia è fra i Paesi che hanno il più basso tasso percentuale di suicidabilitá, rispetto al resto dell’Europa e del mondo anche. Se questo fosse superiore a quel 4,7 sarebbe di un certo interesse, quello di vedere se ciò che succede nel proprio paese è superiore alla media nazionale o è nella norma.
Secondo me siamo nella media da quello che posso dedurre. – continua il medico – Però devo anche sondare questi dati. In ogni caso noi siamo tra i più bassi, secondo me perché ancora abbiamo ancora un importante tessuto familiare di sostegno.
Poi c’è da tenere in conto anche un’altra serie di fattori. Paradossalmente conta anche la lunghezza d’onda dei raggi ultravioletti, cioè laddove c’è più sole c’è meno depressione. Nei Paesi nordici, proprio perché per la minore quantità di sole c’è un maggiore tasso di depressione e quindi ovviamente c’è anche un maggiore tasso di suicidabilità, dato che la sindrome psichiatrica che porta a una maggiore mortalità è proprio la depressione. È possibile sia collegato a questo.
Ma quando la depressione diventa sindrome psichiatrica?
Quando si passa dal normale momento di tristezza a una continuità della depressione stessa. Diventa una sindrome psichiatrica quando dura almeno per un certo periodo di tempo e presenta un serie di sintomi: idee di inadeguatezza, umore depresso, hopelessness(cioè la mancanza di speranza nel futuro, di realizzarsi), anedonia(cioè incapacità o ridotta capacità di provare piacere), appiattimento delle emozioni( emotional blunting) .
Secondo lei, dal suo osservatorio, in una realtà meridionale come la nostra, da cosa può derivare la mancanza di prospettiva sul futuro?
Innanzitutto, ci sono delle persone che hanno delle fragilità. È risaputo che se ci sono stati casi di suicidio in famiglia, ci possono essere fattori genetici che possono predisporre. Poi ci sono quelli ambientali, e questo forse è quello di cui mi preme parlare. Per esempio, la depressione si ha quando c’è una perdita oggettuale (per es. morte di una persona cara o perdita attraverso una separazione). La perdita oggettuale può essere non solo di una persona ma anche quella di una prospettiva, di un lavoro, del paese natale. Quest’ultima, ad esempio, accade a persone che si spostano all’estero o al nord e poi tornavano indietro perché, come si dice da noi, “non gli faceva l’aria”, laddove respirano bene migliaia di persone. Che significa? Che la perdita di un campanile, di un punto, di un luogo con cui la persona si identifica è una perdita oggettuale, un lutto. Quindi questo concetto io penso sia importante sia dal punto di vista antropologico che psichiatrico.
Come si proietta questo in una realtà microcosmica come può essere quella di Ginosa?
Io manco da parecchi anni da Ginosa anche se ho continui contatti coi nostri concittadini. Quello che mi viene spesso riferito è la perdita di un tessuto connettivo che si esprime anche con la perdita di una realtà imprenditoriale nel campo agricolo, dell’industria, dell’artigianato.
Tutto quello che prima era determinato dai ginosini adesso viene determinato dall’esterno: vengono dalla Campania, ma anche dall’estero come i cinesi e i rumeni. Sembra essere questa una società che sopravvive a se stessa e che non è più vivace ed autorganizzata. Questo poi si riflette sul tessuto relazionale della società. Mi raccontano che non ci sono più gli incontri di una volta, che non ci sono più luoghi di aggregazione, qual era prima la villa ad esempio. C’è una dispersione dell’incontro.
È un fenomeno di solitudine…
Si, e anche un fenomeno di solitudine, ma soprattutto di perdita della propria identità. E qui ancora una volta possiamo fare riferimento a quella che l’antropologo Ernesto De Martino chiamava la “perdita della presenza”, che si ha quando le cose accadono senza, al di sopra e malgrado noi. In questo caso c’è una sensazione di mancanza dell’ essere attori del proprio divenire storico.
Proprio rispetto a questa perdita della presenza, crede che la pandemia abbia influito negativamente anche su questo?
Certamente. La pandemia determina per certi aspetti un disturbo post traumatico da stress, proprio perché essa è per molti un trauma. Sappiamo che adesso c’è il vaccino che ci potrà aiutare, però essa ha spazzato via per molta gente le persone care, il lavoro, i luoghi e le occasioni di incontro, di aggregazione, dovendo vivere in lockdown e distanziamento personale. Quelli che prima erano gli elementi fondanti delle relazioni, cioè il rapporto corpo a corpo, la vicinanza, adesso è diventato un pericolo. Mi diceva una persona che lavora in Francia, di aver notato una maggiore reazione depressiva da noi rispetto alla sua nazione di adozione, perché secondo lui i francesi, e i nordeuropei in generale, sarebbero già abituati ad una maggiore distanza personale. Noi invece no, abbiamo bisogno di toccarci, di stare vicini e, quindi, il distanziamento può essere considerato come un elemento di deprivazione.
Come possiamo noi tutti ricostruire questo tessuto connettivo al di là e oltre la pandemia?
0 questa situazione, però collaborando, lavorando insieme, non pensando “a me non succederà”. Cambiare atteggiamento, viverlo più comunitariamente. Ma allo stesso tempo penso che quello del fare comunità, se ciò che mi raccontano di Ginosa è vero, sia un discorso che precede la pandemia. Esso richiede di organizzarsi, di fare cultura, rielaborare la nostra identità che non può che essere meticcia. Se ci sono stranieri o i forestieri fra noi, possiamo ottenere ciò, a mio avviso, solo se ci confrontiamo, costruendo una nuova cultura fatta di osmosi, rispettosa delle identità individuali, che però non crei steccati.
A presto dottor Catucci, sono perfettamente d’accordo con lei e la ringrazio di questi stimoli.
Michele Pacciana
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