
Erano anni che non succedeva. Il rito antico, un pò rozzo e apotropaico dei botti e degli spari con i quali si salutava l’anno vecchio e i suoi guai, sembrava essersi attutito, i morti e feriti, almeno in Puglia e sul Territorio, apparivano in netta diminuzione.
Il 2023, invece, si è chiuso con un triste ritorno alle ombre e ai fantasmi del passato.
A Taranto abbiamo assistito all’esplodere di una rabbia sorda e incattivita, auto bruciate e cassonetti divelti. È un brutto campanello d’allarme, fomentato dall’ansia e dall’incertezza del futuro, da un lavoro sempre più precario, chi fa il paio con i fumi rossi e affittici dell’ex Ilva.
Non si intravede una via d’uscita sulle sorti dell’acciaieria e delle famiglie che vi gravitano attorno.
L’intervento dello Stato tarda ad arrivare. Il centro nevralgico della protesta sembra concentrarsi nella cintura del quartiere Tamburi, ma il malessere sottotraccia si estende a macchia d’olio fino al mare. I pescatori tirano a riva reti sempre più vuote. Il costo dei carburanti e della manutenzione delle barche, otre alle tasse, soffoca un settore che già si barcamema e boccheggia. Anche il Terziario accusa un clima di sofferenza.
Forse solo le parrocchie, hanno il polso della reale situazione di povertà reale e latente.
Vedere il nostro capoluogo arrivare sulle prime pagine in cronaca nazionale per questi eventi e non magari per la riscoperta dei propri tesori e talenti, non può che farci male, ma d’altronde non possiamo mettere la testa sotto la sabbia e ignorare un’amara verità che emerge dai fondi del Mar Piccolo.
Tutta la Magna Grecia, pur con tenacia, lotta, soffre e langue. Ma se non ci rimbocchiamo le maniche e cerchiamo e attuiamo strategie intervento mirato e di rafforzamento delle reti sociali e del welfare, ci potremmo trovare a dover presto fronteggiare fenomeni di rivolta sociale difficilmente controllabili – avvertono i lavoratori dell’indotto siderurgico, tra i quali continua lo stato di agitazione, a cominciare dagli autotrasportatori.
Michele Pacciano
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